Riporto, di seguito, l’intervista di Francesco Rutelli sul Corriere della sera di oggi.
La ritengo in tutto e per tutto condivisibile, ritengo che anche per chi scrive sia, quello segnato da Rutelli, un percorso necessitato.
Aspetterò di vedere le prime mosse del nuovo corso e rifletterò seriamente sul da farsi.
Si accettano riflessioni sul tema!
Intervista al Corriere della Sera
Vado via subito con dolore. Casini interlocutore essenziale.
Il fondatore della Margherita : questa forza non è mai nata. C’è il ceppo pds con molti indipendenti di centrosinistra. L’esito del congresso era chiaro da mesi. Questo non è il mio partito. Francesco Rutelli, 55 anni, volta di nuovo pagina.
Lascia il Partito democratico?
«Sì».
Eppure lei è stato uno dei fondatori di questo partito, nato da pochissimo tempo. La creatura è ancora piccola e lei va già via di casa?
«Il Pd non è mai nato. Nonostante la passione e la disponibilità di tanti cittadini, non è il nuovo partito per cui abbiamo sciolto la Margherita e i Ds. Non ho nulla contro un partito democratico di sinistra, ma non può essere il mio partito».
Si è pentito di aver sciolto la Margherita?
«Vede, abbiamo posto tre condizioni, sospendendo l’attività della Margherita: niente approdo nel socialismo europeo; ma siamo finiti lì. Basta collateralismo, basta vecchie cinghie di trasmissione tra politica, corpi sociali, interessi economici; ma le file organizzate di pensionati Cgil, alle primarie, dimostrano che non ne siamo fuori. Pluralismo politico; ma anziché creare un pensiero originale, si oscilla tra babele culturale e voglia di mettere all’angolo chi dissente. La promessa, dunque, non è mantenuta: non c’è un partito nuovo, ma il ceppo del Pds con molti indipendenti di centrosinistra».
La Margherita può rispuntare?
«No. Ma occorre riflettere su quelle tre condizioni politiche. Erano tassative. E non sono state rispettate».
Perché aborre la socialdemocrazia?
«Non aborro assolutamente la socialdemocrazia. Anzi: se fossimo nel 1982, le direi che la ammiro. Ma siamo nel 2009: è un’esperienza storica che non ha alcuna possibilità di parlare ai contemporanei. Non ci sono più le fabbriche, i sindacati, le strutture sociali del Novecento».
Quando va via ufficialmente?
«Subito, anche se con dolore. Il Pd è stato il sogno di molti anni. C’è però una cosa che mi angoscia: l’incomprensione della gravità assoluta della condizione del Paese. È possibile uscirne, è possibile, come dice il nostro Manifesto per il cambiamento e il buongoverno, trovare le soluzioni giuste per l’economia, il lavoro, le piccole imprese, la crescita e la coesione del Paese.
Ma se non cambia quest’offerta politica, tutto è già scritto: vince una destra dominata dal patto Berlusconi-Lega».
Quali sono le prospettive politiche?
«Cambiare l’offerta politica significa unire forze democratiche, liberali, popolari. Contrapporsi al populismo di destra, alla xenofobia, al radicalismo di sinistra, al giustizialismo. E definire una proposta credibile. Io la mia decisione l’ho presa. La manterrei, anche se fossi solo. Ma non sarò solo. Vedo molte forze che erano in fuga dalla politica tornare in campo. Quindi, una crescita per tutti».
La meta è la fine del bipolarismo e la nascita di un nuovo centro?
«L’alternanza, in democrazia, è indispensabile. Il Pd era concepito per riconquistare il cuore, il centro della società italiana. Il suo spostamento a sinistra impone che altri assolvano questo impegno fondamentale. Oggi, né la sinistra, né il cosiddetto centrismo parlano ai giovani, alle partite Iva, alle persone sensibili all’ambiente. Occorrono progetti pragmatici, ed emozioni. Occorre un’onestà senza macchie. Una laicità senza intolleranza».
Quale sarà il nome del nuovo partito? Chi vi finanzia? E dove sarà la sede?
«È troppo presto per parlare di nomi, di finanziamenti e di sedi. La scelta politica è fatta, per il resto c’è tempo».
Lei, come ha scritto Pierluigi Battista, ha alle spalle una storia di partiti cambiati o abbandonati. I radicali, i Verdi, la Margherita. Ma è possibile, nel volgere di pochi lustri, parlare di una sempre nuova offerta politica o, come disse una volta, di un nuovo conio, senza che si capisca mai bene il portato ideale di questi mutamenti?
«Sì, in trent’anni mi onoro di aver aderito ai radicali, ai Verdi, alla Margherita. E allora? Quanti ex fascisti non vengono interpellati allo stesso modo? Quanti ex rivoluzionari di sinistra oggi siedono nel governo Berlusconi? Che vengano da destra o da sinistra, nel Pdl sanno che il loro potere non sopravvivrà nel dopo Berlusconi. Guardando a sinistra, ho ricordato che molti altri hanno avuto almeno tre partiti, prima del Pd: Pci, Pds, Ds. La differenza è che in cuor loro si sentono in perfetta continuità. Ecco: questa mancata discontinuità è uno dei maggiori problemi che avrà il Pd. Però gli auguro sinceramente il meglio, nell’interesse del Paese e dell’alternativa al populismo di destra».
Come risponde alle accuse d’incoerenza o di opportunismo?
«Su di me si esercita una polemica che non finisce mai. Ricorda, ai tempi del Giubileo, ‘l’ex-radicale che è diventato amico di Giovanni Paolo II’? Come se non si potesse essere credenti, secondo certi laicisti furiosi — come ha scritto Giancarlo Bosetti — senza stringere patti di potere con le gerarchie vaticane! C’è una contraddizione di fondo, però, in queste polemiche contro di me: essere un laico cristiano risponde a una scelta di opportunismo? Oppure è il contrario, visto che per difendere alcune convinzioni ho certamente pagato, e tuttora pago, un prezzo molto maggiore dei supposti benefici? » .
Se avesse vinto Dario Franceschini, sarebbe rimasto nel Pd? O aveva già deciso prima di conoscere l’esito delle primarie?
«Guardi, l’esito del congresso era chiaro da parecchi mesi. E l’ho anticipato nel mio libro, La svolta » .
Qual è il suo giudizio su Pier Luigi Bersani?
«Persona seria. Non so come intenda fare il suo lavoro d’inclusione nel partito che guida. A me, ad esempio, da quando si è candidato, non ha fatto neppure una telefonata. Ma non mi offendo certo: è politica».
Che cosa le ha detto Massimo D’Alema nel colloquio dell’altro giorno?
«Abbiamo parlato di economia, dell’incredibile caso Marrazzo, della sua candidatura — che giudico eccellente — per la guida della politica estera europea. Quanto al Pd, mi ha garbatamente detto che ci sarebbe spazio per me, ma gli ho spiegato che questo non è il Pd che avrei voluto far nascere. Potremo collaborare da postazioni diverse, e ho fiducia che questo amplierà le forze».
Chi l’ha chiamata in questi giorni? Chi ha cercato di frenarla e chi al contrario l’ha sollecitata a fare questa traumatica scelta?
«Ho ricevuto migliaia di messaggi d’incoraggiamento, adesioni, sostegni. Molti, prestigiosi. Tante email di critiche da elettori del Pd: cercherò, nei prossimi giorni, di rispondere a tutti. A frenarmi? Alcuni amici di lungo corso, come Paolo Gentiloni. Ma è stato più formale che altro. Sanno perfettamente, da anni, che non sarei mai entrato in un Pd post-Pci. Quanto a loro, purtroppo, s’illudono».
Ha parlato con Silvio Berlusconi?
«No».
Qual è il suo stato d’animo?
«Determinazione, e desiderio di far crescere una squadra: assolutamente, non un ‘partito di Rutelli’. Del resto, i nomi di Bruno Tabacci, Lorenzo Dellai, Linda Lanzillotta, già dicono molto. Le firme al Manifesto indicano una potenzialità enorme, che può raggiungere anche settori moderati, e in sofferenza, del centrodestra».
Pier Ferdinando Casini sostiene che assieme potreste prendere cinque milioni di voti. È il leader dell’Udc il suo alleato naturale?
«Casini è un interlocutore essenziale. Ed è giusto guardare lontano: con proposte serie, si può puntare a unire molte altre energie. Sino a creare, in alcuni anni, la prima forza del Paese».
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